I trasformisti Jack Nicholson
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Chinatown (1974) Uno dei personaggi più celebri di Jack Nicholson è senza dubbio Jake Gittes, il detective privato che indaga su una misteriosa vicenda di corruzione e omicidi in una Los Angeles dalle tinte fosche in Chinatown, il capolavoro noir di Roman Polanski. Uomo dai modi bruschi e dalla battuta tagliente, il Jake Gittes di Chinatown rievoca il modello di investigatori come Philip Marlowe e Sam Spade, ed è anche grazie a lui se il film di Polanski è entrato nel novero delle più grandi pellicole di tutti i tempi.
Shining (1980) Ecco un altro personaggio entrato nella storia del cinema: Jack Torrance, un uomo apparentemente normale ingaggiato come guardiano invernale in un lussuoso hotel del Colorado, dove si trasferisce insieme alla sua famiglia. Il film, ovviamente, è Shining, magistrale adattamento firmato da Stanley Kubrick dell’omonimo romanzo di Stephen King, che vede Nicholson alle prese con il lato oscuro dell’animo umano, in un ruolo da brivido che ha fatto tremare di paura intere generazioni di spettatori.
Batman (1989) Nel corso degli anni Ottanta Nicholson si specializza in ruoli “demoniaci”, e dopo Shining e Le streghe di Eastwick eccolo alle prese con un altro formidabile villain: il Joker, signore del crimine di Gotham City ed arcinemico di Batman, nel popolarissimo film diretto da Tim Burton e basato sulle avventure dell’eroe mascherato dei fumetti. Inutile dire che Nicholson non fatica a conquistare l’attenzione degli spettatori ogni volta che compare sullo schermo con il suo volto truccato e ghignante.
Codice d’onore (1992) Da una pièce di Aaron Sorkin che l’ha anche adattata. Due marines della base militare USA di Guantánamo a Cuba sono deferiti al tribunale militare per l’omicidio di un commilitone. Il trio dei difensori si convince che fu un’applicazione di “codice rosso”, la norma non scritta che impone dure correzioni fisiche ai compagni che sbagliano e che, data la rigida disciplina, non poteva non essere stata autorizzata, anzi ordinata dai superiori. Pur calato nelle convenzioni e negli stereotipi del dramma giudiziario, è un film ammirevole per la sagacia nel dar forma drammaturgica alla problematica morale sui limiti dell’obbedienza, per il disegno dei personaggi, per la capacità di dosare gli ingredienti, i toni, la suspense. J. Nicholson, in 3 scene, rischia di rubare il film a T. Cruise. Benissimo gli altri.
A proposito di Schmidt (2002) Warren Schmidt, un misantropo che ha speso una vita in una società di assicurazioni, all’età di 66 anni va in pensione. Potrebbe essere giunto il momento di godersela, ma la moglie Helen muore all’improvviso. Schmidt decide allora di andare a Denver, per tentare di convincere l’adorata figlia Jeannie a non sposare il fidanzato, un bellimbusto venditore di materassi ad acqua. Tutto andrà a rotoli: la figlia si sposerà , lui si troverà a vagare senza meta per gli States, e scoprirà persino che anni prima la moglie l’aveva tradito con il suo migliore amico; insperatamente, però, troverà un amico: un bambino nigeriano, adottato a distanza, a cui Schmidt affida i suoi pensieri, e che in cambio gli invierà un disegno. Dopo l’ottimo Election, Payne supera solo in parte il banco di prova del terzo film; ad un soggetto esile e provocatorio solo superficialmente, si contrappone peraltro la prova d’attore di Jack Nicholson che, da solo, rende la pellicola degna di essere vista. La caratterizzazione di Schmidt, borghese meschino e privo di sentimenti, non del tutto resa da una sceneggiatura priva di acuti, viene evidenziata da Nicholson senza il consueto gigioneggiare, ma piuttosto con continui e straordinari cambiamenti mimici. E le sue espressioni durante il discorso del pranzo di matrimonio della figlia sarebbero da studiare a memoria nelle scuole di recitazione.
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